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PER UN TEATRIO NECESSARIO - Teatro Franco Parenti, 17 gennaio 2022

Napule 70. Claudio Ascoli e la maschera. Foto Paolo Lauri Napule 70. Claudio Ascoli e la maschera. Foto Paolo Lauri

Per un teatro necessario
In occasione dell’anniversario della Giornata di resilienza civile del Teatro e dello Spettatore,
in collaborazione con l’Associazione culturale Ateatro presentazione e proiezione del docufilm Riflettendo Napule ’70.
Intervengono Andrée Ruth Shammah, Tommaso Sacchi, Oliviero Ponte di Pino, Claudio Ascoli, Matteo Brighenti e Marco Triarico
Teatro Franco Parenti, 17 gennaio 2022

Nel novero dei gruppi storici italiani (ormai pochi) che riescono non solo a tenere le posizioni guadagnate negli anni ma a rinnovarsi aprendo ai giovani, sollecitando discussioni, cercando di trovare sempre nuove idee o “inciampi” creativi per dare un proprio senso al teatro, Chille de la Balanza è un caso di straordinaria vitalità.

Intanto perché è uno dei pochi gruppi a tenere ancora viva l’idea che un teatro si può, e forse si deve, incardinare ai luoghi paradossali, controversi, perturbanti della città. Il teatro edificio deputato, collocato nel centro monumentale urbano, in fondo è anche una funzione della spettacolarità sociale; il teatro luogo da inventare, in spazi senza più destinazione d’uso, e che rimangono domande aperte, grumi di possibilità, centri di irradiazione di senso possono diventare funzione della relazione umana che il teatro richiede per poter esistere. Non esclusivamente luogo di socialità ma di relazione, il teatro si pone allora come luogo della reinvenzione delle “possibilità dell’uomo”, come è stato per le esperienze novecentesche dei Padri Fondatori della Regia, per usare le categorie del grande studioso Fabrizio Cruciani quando scrive della pedagogia dei maestri europei del primi decenni del XX secolo (Stanislavskij, Sulerzickij, Copeau ecc..). Grande utopia che, oggi, rimane ormai confinata quasi del tutto nei libri di storia (o vive solo nella figura di qualche grande Maestro ancora operante, come Eugenio Barba), cancellata dall’emersione di un concetto di teatro unicamente inteso come “impresa”, che non può comprendere altre dimensioni se non quella quantitativa. Il vecchio adagio: “il valore non è dato dalla quantità di pubblico presente” (che oggi ha l’aria di un’emersione archeologica), come a pensare che quello che si ha davanti (spettacolo o altro) possa avere un valore in sé, indipendente dal numero di spettatori in sala, si sente sempre meno pronunciare o è addirittura assente dai discorsi che vanno per la maggiore. D’altra parte, la situazione post-pandemica che si sta delineando non potrà che porre con forza il problema di un pubblico che solo a fatica sta tornando a popolare le sale. Sarà così forse possibile notare di più quelle esperienze di valore “intrinseco”? Chissà. La battuta sopra riportata comunque, il vecchio adagio per capirci, è stata pronunciata, più o meno in quella forma, da Andrée Ruth Shammah, direttrice artistica del Franco Parenti, di fronte alla scarsa popolazione seduta nelle poltroncine durante la serata del 17 gennaio, con l’evidente intenzione di dare la giusta misura all’incontro. Sicuramente un’affermazione che fa onore a un direttore artistico, specie se lo è di un teatro “triplo” come il Parenti, che registra annualmente un non certo trascurabile passaggio di pubblico; e insieme fa balenare la possibilità di un altro modo di immaginare il teatro: qualcosa cioè che sia veramente luogo di lavoro dei valori che si fanno relazione, e della relazione che si trasforma in arte dell’umano. Il pubblico, in un prossimo futuro, azzardiamo, non potrà che entrare a far parte di questa relazione, o non sarà. Ma sarà il “come” il terreno decisivo. Ecco allora che su questo “come” Chille de la Balanza ha già pronta non una risposta dell’ultima ora, ma una prassi consolidata.

E qui veniamo all’argomento della serata al Franco Parenti, che ha visto la presenza, oltre che del regista, autore e attore Claudio Ascoli, fondatore insieme a Sissi Abbondanza dei Chille, dell’ex assessore alla cultura di Firenze (e ora di Milano) Tommaso Sacchi; di Oliviero Ponte di Pino, del critico Matteo Brighenti e del regista cinematografico Marco Triarico. Esattamente un anno prima, il 17 gennaio 2021, durante il secondo lockdown, la compagnia, che ha sede a Firenze nell’area dell’ex manicomio di San Salvi, dove opera con un progetto pluridecennale di integrazione di quegli spazi con la città, aveva lanciato l’idea di una “Giornata di resilienza civile del Teatro e dello Spettatore”. Attenzione, non una chiamata di stampo negazionista, al contrario; la domanda, stanti le drastiche limitazioni del momento e nel rispetto delle regole imposte dall’emergenza, era grosso modo: “come possiamo ricreare, almeno per poco, quella relazione che il tempo della chiusura rischia di far scomparire?”. La risposta è riuscita a coniugare due istanze radicalmente opposte come quella dell’obbligo di assenza e della necessità della presenza.

L’idea è presto detta, come ha raccontato Claudio Ascoli, nella saletta rossa del Parenti: intanto si è trattato di “invitare teatri, compagnie, artisti, spettatori a fare… qualcosa dal vivo, nel rispetto delle normative, perché questo silenzio si interrompesse. L’adesione è stata generale ed entusiasta in tutt’Italia”. Poi si è continuato con la creazione degli “spett-attori”: cinque spettatori assunti temporaneamente come attori che, dopo essere stati sottoposti a tampone, dotati di mascherina e fatti sedere in teatro a debita distanza, hanno assistito a una replica di “Napule ’70”, lo spettacolo che i Chille avevano appena varato. La scelta dei cinque era avvenuta per estrazione, con una sorta di tombolata via web (“i Chille sono napoletani”, ammicca con sinuosa ironia Claudio Ascoli) in cui erano stati coinvolti novanta spettatori. Tolti i cinque fisicamente presenti, gli altri ottantacinque avrebbero seguito lo spettacolo da casa, in diretta streaming con accesso privato.

Lo spettacolo “Napule 70”, nel pieno di un cambio epocale come quello inaugurato dalla pandemia, lo si potrebbe leggere alla stregua di un cartogramma simbolico sulla mappa di un precedente momento di crisi, di portata più ridotta ma non meno carico di conseguenze, innescato da altri due eventi non meno drammatici per Napoli e per il Paese: l’epidemia di colera del 1976 e il terremoto del 1980. Disastri che determinano, come sottolinea il critico Matteo Brighenti, un momento di “diaspora di molti teatranti napoletani”, compresi i Chille. I due eventi, nella stesura delle drammaturgia, vengono letti anche alla luce della coincidenza anagrafica del settantesimo compleanno dell’autore-attore (il numero “settanta” naturalmente suona anche come riferimento a un decennio decisivo della vita nazionale), e danno ad Ascoli la possibilità, di misurarsi con un altro dato di lunga durata, questa volta personale: il proprio albero genealogico, composto da tre generazioni di artisti di teatro, nel quale lo spettacolo immerge, problematizzandole, le sue sonde memoriali.

La ripresa dal vivo dello spettacolo del 17 gennaio aveva poi fornito sia le immagini per la trasmissione in diretta, sia il materiale per il docufilm “Riflettendo Napule ‘70”, realizzato in seguito da Marco Triarico, nel quale sono stati poi inseriti anche frammenti di una lunga intervista di Matteo Brighenti ad Ascoli e a due degli spett-attori della “cinquina”. Il progetto e il film, considerato che si era ancora nel pieno della pandemia, costituiscono una testimonianza di vitalità teatrale forse unica in Italia. Ben lontani dall’avventurarsi in letture d’attore dalla cucina di casa o di cedere del tutto alla tentazione di trasmettere in diretta streaming spettacoli in teatri vuoti, questa dei Chille ci è sembrata un’aurea via di mezzo.

Un po' come accade in quei film di fantascienza dove per un errore del computer di bordo uno o due membri dell'equipaggio si svegliano dal sonno criogenico nello spazio interstellare, non sono ancora arrivati a destinazione e allo stesso tempo anche la vita sulla nave non è ancora ripresa, cosi i Chille coi loro spett-attori: nel mezzo del buco nero della pandemia svegliano indebitamente il teatro, il quale si guarda attorno attonito e assonnato: “che ci faccio qui?”. Da questa domanda parte un itinerario di rieducazione alla presenza e alla relazione con lo spettatore, ben sapendo che sì è nel tempo sbagliato. E per contrastare gli effetti di questo tempo sbagliato cosa c’è di più adatto del teatro che del senso del tempo (in tutti i sensi e con tutti i sensi) si serve per la costruzione della propria bellezza?

Franco Acquaviva

Ultima modifica il Martedì, 01 Febbraio 2022 10:18

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