Monologo scritto e diretto da Emma Dante
con Gaetano Bruno
luci: Antonio Zappala
Napoli, Nuovo teatro Nuovo, prima nazionale 28 marzo 2007
Milano, CRT Salone, dal 18 al 24 febbraio 2008
Ancora una volta Emma Dante mette in scena la famiglia fonte di dolore e solitudine, la famiglia che tortura e annienta, e lo fa penetrandovi nelle viscere senza tenerezza. La storia di «Festino», un «soliloquio», recitato dal bravissimo Gaetano Bruno che con una straordinaria espressività corporea è sulla scena l' incarnazione di un angoscioso male di vivere, è quella di Paride, uomo-bambino di trentanove anni scosso da movimenti ingovernabili, dall' eloquio faticoso; un essere sghembo, assetato di affetto, nato sconfitto che il giorno del suo compleanno racconta in una sorta di agghiacciante festa la sua vita alle scope, uniche compagne delle lunghe giornate passate da ragazzo rinchiuso per punizione in uno sgabuzzino. Paride ha un gemello paraplegico Jacopo, un essere che ama profondamente, morto per una caduta che lui ha involontariamente provocato. La madre lo ha lasciato, il padre se ne è andato quando i fratelli avevano dieci anni e ora vorrebbe tornare per poter vivere sfruttando la pensione di invalidità del figlio. La vita di Paride è tutta qui, dolore e abbandono raccontati tra lucine colorate, festoni, palloncini e lingue di Menelik, tristi sfiatate trombette. E la squallida tragedia si amplifica in una forzata allegria. Uno spettacolo ben diretto, ben scritto e molto ben recitato, un racconto di ordinaria infelicità. Crt Salone, fino al 24 febbraio
Magda Poli
Nicola Arrigoni
Opus n.8, se non ho contato male (per difetto), «Il festino» in scena all' Ambra Jovinelli, non è per niente un testo minore, come s' era avuta l' impressione quando lo spettacolo di Emma Dante è andato in scena al Nuovo Teatro Nuovo di Napoli. È un semplice monologo, ma si situa con autorità nel main stream dell' autrice, intendo il main stream tematico, l' invivibilità della famiglia, la sua atrocità. In secondo luogo, non è un romanzo come, poniamo, «Cani di bancata»; è una novella, niente di più, ma una novella dalle cadenze precise, e con uno svolgimento perfetto, oscillante tra il realismo di fondo e l' onirismo cui perviene. Onirismo è un termine comodo. In ciò che questo straordinario attore, Gaetano Bruno, ci racconta, non vi è nulla di onirico, vi è però una costante deformazione della realtà, una piega della mente che insidia il suo equilibrio, una malattia di vivere così radicale da mettere in dubbio lo statuto stesso di ciò che chiamiamo realtà. Egli si presenta su una nuda scena vestito con un berretto di lana, una maglia bianca, un farfallino legato sul collo nudo, un paio di pantaloni celesti e scarpe senza calze. Si chiama Paride e si accinge a festeggiare il suo trentanovesimo compleanno. Ha appena ricevuto una lettera dal padre, fuggito via quando Paride e suo fratello Jacopo avevano dieci anni. È una lettera che annuncia il ritorno di cui né Paride né Jacopo sanno compiacersi. La mamma non c' è più; Paride (così, squittendo, dice: e che squittisce è lui stesso a dirlo) ha passato la vita in uno sgabuzzino, in compagnia dei manici di scopa, quelli che ora gli fanno compagnia, là sulla scena, tra le miserabili luminarie. Con lui c' era sempre il fratello, però quando i due erano nella pancia della mamma Paride schiacciò le vertebre di Jacopo e lo costrinse tutta la vita sulla sedia a rotelle. Il risultato è che Jacopo è un infermo, diremo oggi: un disabile; e Paride è, diremmo oggi, fuori di testa, un po' svitato, un po' schizofrenico - anzi, così schizofrenico che siamo assaliti dal dubbio se uno dei due fratelli, questi due mezzi uomini che non ne fanno uno, non sia un' invenzione dell' altro. Il prima drammatico, il ballo solitario di Paride-Jacopo con le sue scope, e poi tragico finale, la caduta in volo dalla finestra di Jacopo-Paride rivela tutto lo struggente talento di Emma Dante, una vera «bestia da stile» (nonostante questa volta scriva in italiano, non già in un qualche dialetto). Gaetano Bruno, che ora ha indossato una giacca celeste per essere adeguato alla sua festa, o festino, si inginocchia, soffia sulle candeline della torta, si impiastra il muso di ketch-up, soffia in una lingua di Menelik, si piega, o si chiude in se stesso - forse per ritrovare quel fratello che ha perduto, o che non ha mai avuto.
Franco Cordelli
Non a caso il titolo è allegro, e del resto punta sul riso l'andamento dell'azione del Festino, primo monologo scritto e diretto da Emma Dante, che con più originalità lo chiama «soliloquio», tornando a quel filone del suo teatro che indaga le ossessioni e gli stadi di diversità più scomodi dell'esistenza con uno scavo nel mistero della naturalezza capace di rendere tollerabile all'umanità i più oscuri e estremi gradi di sofferenza. Così nella figura di Paride, un nome che irride a una mitica bellezza, c'è un bambino di 39 anni incapace di star fermo mentre si inceppa nel suo parlare a singhiozzo, il quale nasconde dentro di sé un gemello monozigote di nome Jacopo, «uno aggrappato in testa e l'altro nelle gambe» a causa di una gravidanza sconnessa; i due sono in qualche modo interdipendenti come i beckettiani Ham e Clov di "Finale di partita".
Ma Paride pretende che l'altro sia morto, anche se a tratti ne prende il posto e non si sa più chi dei due ci stia parlando, in questo giorno di compleanno in cui scadrà il termine della sua vita, ormai senza madre, con un padre che da lontano gli chiede soldi e ha pure inviato delle scope in dono. In preda ad una frenesia motoria che a tratti investe anche la zoppia delle parole, lo strepitoso Gaetano Bruno danza a ritmo di fischietto, mentre monta le scope, dà loro un nome, le accoppia dandogli la parola. Il mito della famiglia come prigione, che abbiamo visto esplodere nella poetica della Compagnia Sud Costa Occidentale, da Carnezzeria a Mishelle a Vita mia, si concentra nell'immagine di un unico personaggio ridotto a dire le sue ultime parole a un convegno di scope.
Franco Quadri