di Elsa Morante
con Carlo Cecchi, regia Mario Martone, musiche Nicola Piovani
Fondazione del Teatro Stabile di Torino/Teatro di Roma/Teatro Stabile delle Marche
con Carlo Cecchi (Edipo), Antonia Truppo (Antigone), Angelica Ippolito (Suora).
Coro: Giovanni Calcagno, Salvatore Caruso, Dario Iubatti, Giovanni Ludeno, Rino Marino, Paolo Musio, Franco Ravera; guardiani: Victor Capello, Vincenzo Ferrera, Totò Onnis; dottore: Rino Marino. Francesco De Giorgi (tastierista), Andrea Toselli (percussionista).
musiche Nicola Piovani, fondale Sergio Tramonti, costumi Ursula Patzak, luci Pasquale Mari, suono Hubert Westkemper, aiuto regia Paola Rota
Teatro Carignano, Torino dal 15 al 27 gennaio 2013
E' una strana miscela di alto e basso, di aulico e volgare, l'allestimento dell'unico testo teatrale di Elsa Morante; da gustare esattamente come fu concepito, pensandosi, spettatore, sotto l'effetto di sostanze stupefacenti. Morante sperimentò la scrittura in uno stato altro, dalla stesura trapela questa alterità, così l'immaginazione potenziata deve supportare il viaggio fantastico del pubblico fin dall'apertura di sipario. Ed è un'avventura seducente ed interessante, in un delirio di suoni, luci, parole, visioni. Spettacolo accuratissimo, per quanto riguarda le immagini, nella ricerca di un equilibrio tra il profluvio verbale e la partitura gestuale; alle battute, ai dialoghi fa da contraltare la precisione dei quadri fisici, variegati, pieni, come se il vuoto delle parole, talvolta scevre di logica immediata, andasse comunque riempito, per la soddisfazione degli astanti. Edipo è in barella, in una decrepita clinica psichiatrica, il coro dei malati vaga in platea, talvolta silente, talaltra dolente, mentre Antigone, scalcagnata nei modi, dal lessico sbertucciato, cerca di attirare l'attenzione di medici e infermieri, perché accudiscano il padre immobile, accecato, dalle orbite ancora sanguinanti; paiono arrivare da pianeti distanti, da dimensioni diverse padre e figlia, la voce di Edipo si leva poetica, nel rimembrare un suo altro tempo, di maestà, la voce di Antigone è un farfugliare d'affetto, le due metà combaciano in equivalenti ed avvincenti interpretazioni (di Cecchi e Truppo). Nessuno fa caso al cieco che vede con l'istinto, che percepisce i movimenti intorno a lui e quasi riconosce in una suora l'altra figlia Ismene; qui il sole, la luce della conoscenza è mortifera, qui non si possono confondere i ruoli famigliari, non si può invocare Giocasta col nome di mamma. C'è, sul palco, una botola, dove sprofondano i corpi dei trapassati; alla fine, quando l'inverosimile sarà tutto svelato, vi sparirà dentro anche Edipo, a conquistare il riposo, a smettere di sapere.
Maura Sesia