Sodoma e Gomorra alla stazione di Shoreditch
di Philip Ridley
Adattamento e regia: Carlo Emilio Lerici
Scene: Giorgio Baldo
Musiche: Francesco Verdinelli
Interpreti: Francesca Bianco e Michele Maganza
Produzione: Teatro Belli Trilly Produzioni
Milano, Teatro Libero 20-26 gennaio 2010
La polizia, allertata da una telefonata anonima, scopre nei gabinetti d'una stazione abbandonata, squallido luogo d'incontro abituale di omosessuali, il cadavere orrendamente straziato d'un giovane. Un evidente episodio di violenza omofoba. Dopo il funerale Anita, la madre del morto, viene pedinata da un ragazzo giorno dopo giorno. Accortasene la donna lo affronta e lo trascina nel suo appartamento. Questo l'antefatto che verrà svelato nel corso d'un colloquio teso e coinvolgente innescando un burrascoso outing di inconfessabili segreti.
Si scopre che il ragazzo, Davey, ha scoperto il cadavere mentre passava di là con la fidanzata che poi ha avvertito la polizia. Segue Anita, perché è ossessionato dall'atroce ricordo di cui vuol liberarsi. Lei non è convinta della storia e vuole saperne di più. Tra la ritrosia di lui e l'angoscia a volte aggressiva a volte divagante di lei la dialettica emotiva si fa via via più serrata.
Il confronto tra i due procede per flash backs tra divagazioni, ricordi, bruschi sbalzi d'umore seguendo un ritmo di base rigorosamente calibrato, una spirale sempre più stretta in costante accelerazione verso il culmine della catarsi finale in cui la delicata confessione d'un grande amore a prima vista viene sommersa dall'insostenibile brutalità d'un insensato omicidio di gruppo.
Ma prima dello snodo risolutivo molti grovigli verranno alla luce, blocchi edipici, sensi di colpa, rimozioni, una ramificata trama psicologica innervata da una vibrata denuncia degli ottusi pregiudizi che avvelenano la multiforme realtà dei rapporti umani.
Molto bravi i due interpreti: lei impostata su un chiaroscuro di stati d'animo contrastanti interrotti da scoppi di rabbia disperata, lui all'inizio sulla difensiva e poi sempre più determinato a liberarsi dal peso d'un terribile trauma. La regia li costringe a movimenti tesi da animali in gabbia in uno spazio claustrofobico, una sorta di lugubre soffitta evocata da uno squallido lucernario dai vetri sporchi e alcuni scatoloni da trasloco. Un rifugio che è anche un carcere dove giungono, lontani ma fin troppo distinti, gli echi di tante vite disperate, di tante solitudini assediate da una violenza sempre incombente.
Vittorio Tivoli