di Richard Wagner
maestro concertatore e direttore d’orchestra: Daniele Gatti
regia: Nikolaus Lahnhoff
scene: Stephan Braunfels, Costumi: Duene Schuler
interpreti: Hans Peter König, Robert Dean Smith, Anne Schwanewilms, Tom Fox, Waltraud Meier, Detlef Roth
Milano, Teatro alla Scala 2007
Lohengrin è l’opera di Wagner che in Italia è stata fatta passare per italianizzante. Così venne giudicata dal 1871 quando venne data per la prima volta a Bologna, quando già esistevano Tristano e Isotta e I Maestri cantori. Per Lohengrin si instaurò allora una tradizione esecutiva che i nostalgici della lirica che fu ricordano affettuosamente. Traduzione italiana a base di “cigno gentil” e “cigno d’amor”, mentre la fonetica della nostra lingua, piena di vocali, porta gli interpreti ad allungare i suoni, alla faccia del rapporto suono-parola che in tedesco suona irto di consonanti. A non voler parlare dei tagli smisurati fatti per non annoiare il nostro pubblico superficiale che, dicono le cronache, pretese alla Scala (1873) l’interpolazione del ballo Le due gemelle del meno impegnativo Ponchielli. Il Lohengrin italiano è un fatto storico, oggi da dimenticare. Così, per intero e ovviamente in tedesco, lo riporta oggi alla Scala Daniele Gatti dopo dimenticate edizioni di Karajan e Abbado. Gatti sostiene il discorso con felice risalto della bellezza dei temi che sappiamo essere accattivanti oltre che memorizzabili, senza per questo indugiare a delibali, anzi con una fluidità discorsiva priva di cadute. Una grande lezione in una grandissima esecuzione orchestrale e corale (maestro Bruno Casoni). Di grande espressione Robert Dean-Smith, un Lohengrin piccolettoe di nessuna imponenza e senza il fiero metallo, forse non del tutto convincente per alcuni; ma per tecnica e dolcissimi fraseggi un Lohengrin straordinario e spesso emozionante. Il resto della compagnia, ad eccezione della superba Waltraut Meyer, pur senza picchi supremi è stato degno dell’insieme.
Ma ecco a placare i nostri entusiasmi la parte visiva. Abbastanza suggestiva la scenografia con muri sghembi, anfiteatro e gradinate, ben valorizzata dalle luci. Ma del tutto incomprensibili i costumi che com’è ormai d’uso non seguivano il libretto. Alcuni coristi erano vestiti da guerrieri di fantasia mentre altri del coro pareva fossero andati in scena con i vestiti che avevano a casa loro. Il significato non si è capito ma il regista ha dichiarato che voleva essere un’interpretazione onirica e psicanalitica. Parole che suonano bene, fanno cultura, ma che non hanno impedito i rumorosi dissensi alla fine da parte del pubblico. Proprio in questi giorni si è celebrato il cinquantenario della morte di Toscanini. No riusciamo a pensare cosa avrebbe detto il Maestro dei registi di oggi.
Mariella Busnelli