di Giovanni Testori
interpretato e messo in scena da Iaia Forte
scena e costumi: Stefania Cempini
allestimento e luci: Mauro Marasà
Napoli, Teatro Nuovo, dal 16 al 21 dicembre 2008
Due sono le parole-chiave su cui si fonda l'«Erodiade» di Testori, adesso in scena al Nuovo per la regia e l'interpretazione di Iaia Forte (nella foto sotto): «silenzio» e «corpo». Per l'una occorre intendere l'Impronunciabilità (ovvero Dio, l'infinito, l'eterno) e per l'altra la Vita (ovvero l'uomo, il circoscritto, il transeunte). E vengono, insieme, a costituire l'alfa e l'omega di un testo che si pone come una metafora e, di più, una verifica del Teatro. Non a caso, la prima stesura di «Erodiade» - collocabile fra il 1967 e il '68 e qui fusa con brani della seconda, datata 1984 - coincide con la redazione e la pubblicazione del saggio «Il ventre del teatro», autentico e decisivo manifesto della poetica e della drammaturgia testoriane. Infatti, il profluvio di parole messo in bocca alla regina infelice, che chiese la testa del Battista perché quel profeta irraggiungibile e incrollabile aveva rifiutato il suo amore, traduce perfettamente ciò che avviene, e non può non avvenire, sul palcoscenico. Come Dio si fece uomo, come l'infinito poté ridursi al circoscritto e l'eterno al transeunte, così la funzione del teatro consiste nel portare alla luce della ribalta un problema singolo estratto dall'oscurità generale, «come un corpo - scrive Testori nel saggio in questione - che sia inserito in un altro corpo; e nella sua meditazione di quel lacerto di carne sopra le assi del palcoscenico, come sopra quelle di un catafalco, esattamente come in una veglia funebre». Appunto. Che cos'è, se non questo, una veglia funebre, il vaneggiante, blasfemo e pure tenerissimo sproloquio di Erodiade davanti alla testa di Jokanaan deposta in una bacinella ai suoi piedi? Ma che cos'è, nello stesso tempo, se Erodiade di tanto in tanto ricorda che quella testa è fatta di cartapesta? Una recita, certo; ma anche, e soprattutto, la constatazione dell'impotenza della parola recitata, quella, giusto, che tenta disperatamente d'incarnare l'identico mistero (per Erodiade e per tanti altri incomprensibile) di un Dio che sceglie di chiudere il suo insondabile universo nello spazio minimo e riconoscibile di un ventre di donna. Ebbene, la prova d'attrice di Iaia Forte è straordinaria proprio perché si colloca sull'incerto confine tra gli opposti sin qui descritti: da un lato aggancia le parole alla traboccante fisicità dell'interprete (e dunque a un indiscutibile qui e ora) e dall'altro le spegne nel pulsare di una sorta di basso continuo, che ostinatamente le ricaccia - al di là dei sensi, al di là dei sentimenti - nel carcere della superbia da cui sono venute.
Enrico Fiore