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ME VOJO SARVA' - regia Eleonora Danco

"Me vojo sarva’", di e con Eleonora Danco "Me vojo sarva’", di e con Eleonora Danco

Nessuno ci guarda
Di e con Eleonora Danco 
Musiche scelte da Marco Tecce
Costumi: Marisa Di Mario
Disegno luci e regia: Eleonora Danco
Produzione: La Fabbrica dell’Attore – Teatro Vascello 
Festival di S. Ginesio 2024
Chiostro Sant’Agostino 22 agosto 2024

www.Sipario.it, 23 agosto 2024

Il dittico di letture Me vojo sarva’-Nessuno ci guarda di Eleonora Danco si è rivelato, più che uno spettacolo performativo, come annunciato sul programma, un deludente esercizio di retorica drammaturgica.

Attingendo alla tecnica del flusso di coscienza alla Joyce o alla Woolf, per citare illustrissimi e imparagonabili esempi, i due testi della Danco hanno squadernato un universo fatto di luoghi comuni ormai sdoganati anche come tali. Perché – e diciamocelo chiaramente –: chi non ha riportato ferite da certe situazioni familiari, riversandole sulla società o i suoi cari (siano essi figli, partner, amici e affini)? Chi non ha ereditato una costellazione di modi di sentire, fare ed essere dai quali liberarsi è difficilissimo?

Decenni di teorie psicanalitiche, di esperienze individuali conosciute tramite racconti tramandati da altri se non vissute personalmente: di tutto questo, la memoria collettiva è ormai colma e nulla di nuovo, in termini culturali ed esperienziali, vi è sotto il cielo. 

Tranne, è ovvio, il modo con cui ciascuno, singolarmente, si cura le ferite e prova a superarle (se riesce). È su questo specifico dettaglio, allora, che andrebbe curata la scrittura – drammaturgica o narrativa – di un testo con al centro tale tema. Riuscendo, cioè, a dare una componente simbolica il più possibile universale alla storia personale che viene raccontata. Si pensi alla Signorina Else, per esempio.

La scrittura della Danco, che di questo spettacolo risulta autrice e regista, si è rivelata un puro sfogo di retorica, un dar vita a un insieme di situazioni non legate da una trama e che hanno tratteggiato quadri familiari drammatici come ce ne sono tanti; e che, peggio ancora – qui il limite più grave del testo –, che non ha conferito a tutto questo un’aura simbolica, di universalità: condizione che qualsiasi espressione artistica deve realizzare. 

Il dialetto romanesco usato dalla Danco, ad esempio, non è una reinvenzione letteraria (alla Pasolini o alla Gadda) della lingua delle borgate, ma una sua stinta e piatta riproduzione: una sua verbalizzazione. Le vicende delle protagoniste dei due monologhi: una ragazza di periferia disagiata per via di un fratello e di una madre che hanno riversato su di lei i livori dovuti alla povertà; una bambina che, invece di ricevere affetto, si trova ad essere valvola di sfogo di complessi, paure e rabbie trattenute dei genitori: tutto questo è stato raccontato come spiando dal buco della serratura senza mai aprire la porta e scoperchiare il tetto di quelle stanze (quando ci si libererà dell’eredità del Moravia di mestiere?).

Sotto un profilo recitativo, non si può disconoscere competenza tecnica alla Danco. Ma, in questo caso, non è emersa. L’attrice non si è resa strumento di parole e situazioni, non ha trasmesso emozioni che, semmai, sono emerse dal testo. La Danco ha creato distanza col pubblico, non ha cercato né contatto, né complicità. Anche per via del palco: non illuminato, sempre in penombra.

È teatro tutto ciò? 

Pierluigi Pietricola

Ultima modifica il Venerdì, 30 Agosto 2024 09:03

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