di Thomas Bernhard
traduzione Renata Colorni
riduzione Ruggero Cappuccio
con Sandro Lombardi, Francesca Gabucci, Martino D’Amico
scene e costumi Gregorio Zurla
luci Gianni Pollini
regia Federico Tiezzi
produzione Compagnia Lombardi – Tiezzi, Fondazione Campania dei Festival – Campania Teatro Festival, Associazione Teatrale Pistoiese, ATP Teatri di Pistoia Centro di Produzione Teatrale
teatro Remondini, Bassano del Grappa, 13 marzo 2023
Eccoci di fronte a una purissima messa in scena che offre riflessione su genio e sregolatezza, quelli di Glenn Gould, pianista iconico del Novecento che in questo spettacolo della Compagnia Lombardi – Tiezzi tiene banco non fisicamente ma con il nome e una presenza che aleggia nell’aria dal primo all’ultimo minuto. A discapito del suo genio però, inevitabile, qualcuno soffre, anzi, soccombe. In una scenografia elegante e un po’ misteriosa, seducente e clamorosamente bella con al centro una piramide illuminata e un pianoforte co-protagonista, e un salotto borghese si muovono tre personaggi, un narratore che si interfaccia con gli altri due in un dialogo che a tratti può apparire immaginario, un musicista, Wertheimer, e una donna, la sorella di quest’ultimo che nella storia è quanto mai immersa. Bernhard ancora una volta colpisce col suo altissimo linguaggio apparentemente straniato, metafisico, a volte surreale, e omaggia l’arte, stavolta nel senso musicale (il testo è parte di una trilogia sulle arti, vedi gli altri due, “Antichi maestri” e “A colpi d’ascia”). Un omaggio che è soprattutto un indagare in una terra d’Austria fredda e spietata cosa prova chi non arriva al genio, alla proiezione straordinaria di se stesso. Siamo a Salisburgo e le confabulazioni che s’intersecano tra i tre, riflessioni sullo stato di ognuno, vertono sempre e inesorabilmente sul mito Glenn, artista impossibile da avvicinare come qualità, esecuzione, direi persino materia. Con una partitura dove tutto si focalizza, le “Variazioni Goldberg”, simbolo estremo di superiorità che lo stesso Glenn Gould, l’inavvicinabile, esalta e rende vano per gli altri compagni di corso, ossia proprio il narratore dal nome assente e lo stesso Wertheimer. E la donna, questa splendida giovane signore del Novecento, austera e triste? C’entra, eccome. Vittima designata del fratello, spartana esecutrice dei propri sentimenti, lei a sua volta soccombe come gli altri due, si getta a capofitto nel precipizio personalizzato, nel disastro umano, sacrificata e incapace di liberazione. Nella sua desolazione di vittima designata, sposandosi genera nel fratello ancor più dramma, colpevole di averlo in qualche modo abbandonato a se stesso. La sua presenza per il pianista diventa dunque dilaniante. Bernhard indaga e scava, con una finezza straordinariamente precisa da vedere e da sentire, nell’abisso del pensiero dei protagonisti. Nelle note dello spettacolo una domanda lecita, perfetta arrovella le menti: “fino a che punto siamo responsabili dei nostri fallimenti e della nostra infelicità?”, e sta tutto lì, infatti. Una montagna di domande da porsi, viste da un paio d’occhi esterno ma al tempo stesso agglomerato e definito in un collega di corso di Wertheimer, il narratore appunto, che vede e vive quella situazione di sconforto, dolente, grandissima, tra interrogativi e confronti. Ma a parte il discorso umano Bernhard nella sua saggezza drammaturgica punta l’indice contro l’arte che non solo può sublimare ma distruggere. Schiacciati dal virtuosismo grandioso di Glenn Gould gli altri due pianisti attraverso il portentoso suono della parola riducono loro stessi, dopo la morte del genio a pochezze umane, riducendosi, sottraendosi alla vita l’uno in un modo e il secondo in un altro. Oltre alla bellezza, pura, del testo, cui Ruggero Cappuccio apporta ottimo lavoro, tutto è da ricordare, dalle plastiche posizioni della donna (ma anche di Wertheimer) sul pianoforte, alla conquistante bellezza delle luci verdi, rosse, fuxia lucido, brillante, a una splendida regia, alle tre interpretazioni metempiriche di Martino D’amico, Francesca Gabucci, Sandro Lombardi. Con un finale da teatro puro, mescolante John Cage, lutto, pianoforte, massime riflessive, futuro mesto.
Francesco Bettin